Non è Louis Vuitton, anche se il logo LV con le due lettere sovrapposte evoca il logo della maisonfrancese con cui Luciano Vivolo lavora da decenni. Così come fornisce accessori in pelle a Chanel, Burberry,Dior, Armani, Hermès, Gucci, Tod’s, Valentino, Moncler, Balenciaga, per citare solo dieci dei clienti piùblasonati della moda internazionale che bussano alle porte di Bologna per avere etichette, cartellini, fibbie,cinturini, patch e particolari in pelle su misura. Potendo contare sull’estro della famiglia Vivolo (Luciano con lamoglie Marianna e i quattro figli Salvatore, Eloise, Luciana e Matteo sono tutti operativi in azienda), sulleabilità manuali e creative di una squadra di un centinaio di persone (età media 28 anni) e la precisione dialtrettante macchine 4.0 all’avanguardia.
Il nuovissimo stabilimento di 10mila metri quadrati, appena inaugurato alle porte di Bologna, è ununicum nel settore. E non solo per i 20 milioni di euro di investimento tra struttura e impianti digitali nellasede a San Lazzaro di Savena, dove in pieno Covid un vecchio deposito di legnami è stato trasformato in unmaestoso edificio squadrato di vetrate trasparenti, dentro e fuori, schermato da tende scure che lo avvolgonoquando il sole esagera. Un’architettura che è un po’ fabbrica e un po’ giardino: tre corti interne sono adibite afaggeti e il verde della natura intervalla l’ordine e la pulizia meticolosi del laboratorio di produzione, deimagazzini di pelli colorate, degli archivi. Ma è un unicum anche per l’“intrapresa” compiuta dal protagonistadi questo spazio sospeso nel tempo, il fondatore Luciano Vivolo, terzo di sette figli, partito a 16 annidall’Irpinia in cerca di fortuna a Bologna e diventato pellettiere per caso, o per destino, nel 1977: recuperavascarti e ritagli dell’industria calzaturiera locale per realizzare toppe e arrotondare i guadagni, tre anni dopo le inviava al Corriere della Sera per proporle come gadget e iniziava così a produrre milioni di pezzi-icona per il femminile Amica.
Da lì la scalata industriale e internazionale è stata una corsa inarrestabile. Costellata oggi dalla decisione di uscire allo scoperto, dopo oltre 45 anni di anonimato, aprendo le porte del nuovo quartier generale “LV” (a cinque chilometri dalla prima sede bolognese) a istituzioni, giornalisti e ai clienti arrivati da Usa, Francia, Germania, Regno Unito.
Niente camicia e cravatta, neppure per il taglio ufficiale del nastro. Luciano Vivolo indossa solo jeans e una T-shirt nera («ne ho 50 tutte uguali nell’armadio», precisa) e non si stanca di macinare passi su e giù per lo stabilimento dalle sette di mattina alle nove di sera per controllare postazioni e avanzamento commesse estraendo di quando in quando il monocolo che tiene in tasca per controllare dettagli microscopici delle lavorazioni. «Bello è ciò che è ordinato, preciso e rispettoso. La cultura del bello va coltivata ogni giorno, anche in fabbrica», ripete mentre preleva da una macchina ad alta pressione da 180 tonnellate un quadratino di pelle trasformato in una testa tridimensionale di T-Rex.
Oggi Vivolo fattura 20 milioni di euro l’anno, tanti quanti ne ha spesi per la nuova “casa” green, ha certificazioni di qualità e sostenibilità a prova dei più rigidi controlli delle case internazionali di moda (Iso 9001, 14001, 45001, FSC, Global recycled standar, Oeko Tex), collabora con l’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove ha appena festeggiato la prima edizione del Premio Luciano Vivolo, all’interno del Corso triennale di Fashion Design, per giovani creativi. «Noi nasciamo sostenibili, recuperando scarti di produzione e abbiamo sempre fatto scelte di economia circolare», rimarca il fondatore, che nel nuovo stabilimento ha installato cisterne per raccogliere l’acqua piovana, un pozzo a uso irriguo, pannelli fotovoltaici. E ripete come un mantra le parole qualità e innovazione. Ovvero, la sintonia e sincronia tra la sapienza artigianale delle mani (l’85% degli addetti sono donne, «perché hanno un senso di responsabilità e un’accuratezza che noi uomini ci scordiamo», spiega il patron) e la precisione chirurgica di laser e tecniche industriali, lavorando ogni singolo articolo (8 milioni di pezzi l’anno) singolarmente, per quanto piccolo sia.
«Concorrenti? Io non ne ho – assicura Vivolo -. Non c’è nessuno che sappia creare, sviluppare e produrre in un unico luogo particolari in pelle con le tecniche e i materiali che usiamo noi. Avessi scelto di fare conto-lavoro, oggi vivrei in uno scantinato. Invece sono qui e sono io a proporre alle maison accessori nuovi che detteranno i trend delle future stagioni».
Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore.